domenica 2 novembre 2014

Cosa penso di Art or Sound alla Fondazione Prada di Venezia

Art or Sound, la mostra curata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Venezia chiude domani. Ha accompagnato l’estate della Laguna come curioso e saporito contorno della Biennale Architettura e come da copione ha diviso la critica fra detrattori ed estasiati sostenitori. È chiaro che in medio stat virtus, quindi ecco cosa penso di una mostra che ha sicuramente degli aspetti da migliorare, ma che ritengo vada premiata.

Andiamo per ordine e partiamo dal concept. L’idea di Celant era quella di indagare il rapporto fra arte e suono non in quanto antitesi (nonostante la congiunzione avversativa del titolo, al quale forse avrei aggiunto un punto di domanda), bensì come potenziale dialogo fra la dimensione puramente visiva del nostro meccanismo di conoscenza e la necessità di stimolare anche gli altri sensi. L’udito, ovviamente, ma anche il tatto, premiando la multisensorialità e invitando lo spettatore all’interazione. Un progetto indubbiamente affascinante e ambizioso, un lavoro di ricerca al quale forse ci stiamo disabituando, dove vengono coinvolti nomi talvolta un po’ scontati e altisonanti, ma anche qualche più giovane e interessante scoperta. Primi punti a favore.

Art or Sound, installation view, foto Attilio Maranzano, courtesy Fondazione Prada
Certo, nell’immensità del tema scelto e del periodo preso in considerazione (si va dal Cinquecento ai giorni nostri, passando ovviamente per le avanguardie) era inevitabile incappare in qualche scivolone e in alcune promesse disattese. Per quanto gli spazi fossero ampissimi (perché per la prima volta estesi anche al secondo piano nobile della sede di Ca’ Corner della Regina), l’impressione talvolta era quella di trovarsi costretti a causa dell’innumerevole quantità di strumenti e opere scelte, col rischio di sentirsi proiettati in un mercatino dell’antiquariato. Una pecca che comunque si può perdonare: non capita tutti i giorni di aggirarsi fra fabbricati preziosi, automi, orologi, gabbie per uccelli canori, carrozze con organi e dispositivi musicali automatici del XIX secolo. Una sorta di wunderkammern che proprio per definizione può essere ridondante e stipata di oggetti.

Art-or-Sound, foto Attilio Maranzano, courtesy Fondazione Prada
Dal punto di vista del percorso storico è difficile seguire la linea del tempo, ma dubito fosse negli intenti di Celant che dichiaratamente aveva l’intenzione di uscire dalla museologia tradizionale. Non manca niente: dall’intonarumori di Luigi Russolo ricostruito da Pietro Verardo, ai metronomi di Man Ray (Indestructible object, 1923) e Salvador Dalì (1944), attraverso le sperimentazioni di John Cage, Fluxus, i nouveaux realistes fino ai più contemporanei Martin Creed, Céleste Boursier-Mougenot e Haroon Mirza. La lista sembra infinita ed è davvero difficile scegliere a causa dell’eterogeneità e dell’abbondanza delle proposte. C'è anche uno dei miei artisti preferiti, ovviamente indiano: Subdoh Gupta, con Jutha (2005), tre lavelli di acciaio inox contenenti utensili di alluminio rubati alla vita quotidiana, che producono suoni grazie ad alcuni altoparlanti. Una riflessione sui profondi cambiamenti sociali ed economici del suo paese d'origine.

Subdoh Gupta, Jutha, 2005 @ Art or Sound, Fondazione Prada Venezia
Manca l’interazione promessa, ho letto e sentito da qualcuno. Effettivamente in confronto ai 180 pezzi esposti sono poche le opere che invitano il pubblico a interagire e ad azionarle. Fra queste c’è Laurie Anderson con il suo Handphone Table, un tavolo di legno che trasforma i nostri avambracci e le mani in conduttori di suono, se vi appoggiamo i gomiti. C’è la delicata scultura-strumento di Doung Aitken, Marble Sonic Table: un altro tavolo, attorno al quale i visitatori sono invitati a sedersi e picchiettare su delle lastre di marmo che producono dei suoni come fosse uno xilofono. 

Il funzionamento di Handphone Table di Laurie Andreson, 1979
 C’è poi la consolle di Carsten Nicolai (conosciuto anche come Alva Noto) dove abbiamo la possibilità di sperimentare infiniti soundloops con 4 piatti di giradischi integrati. O meglio, "avremmo la possibilità": nel corso della mostra è stato necessario negare l’attivazione da parte del visitatore, al quale non restava che ascoltare in cuffia i suoni scaturiti dai movimenti di un addetto alla sala poiché l’opera è stata danneggiata. Ecco, forse il pubblico non è ancora pronto all’interazione rispettosa e permettere di toccare e manipolare tutti gli strumenti avrebbe generato una sorta di ingestibile circo, favorendo l’entertainment piuttosto che la riflessione sulla ricerca e sul valore della mostra. Perfettibile, ma sicuramente degna di essere vista. E sentita.

 
Concerto con l'intonarumori di Luigi Russolo: 


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